Personaggi Illustri

NICOLA CILETTI

(S. Giorgio La Molara, 1883 –1967)
Nota Biografica dal sito www.nicolaciletti.it

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8 April 2020

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8 April 2020

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8 April 2020

Niccolò Umberto Ciletti nasce a S. Giorgio La Molara (BN) il 9 marzo 1883 da Agnello Ciletti e Giulia Barra, ultimo di nove figli di una famiglia di commercianti in tessuti e metalli preziosi. Dopo lusinghiere dimostrazioni di interesse e passione per il disegno, nel 1900 si iscrive all’Istituto di Belle Arti di Napoli dove è allievo di Michele Cammarano e Stanislao Lista. L’artista esordisce con la partecipazione nel 1903 all’esposizione del Circolo Artistico Partenopeo e, nel 1908, alla II Esposizione Quadriennale di Torino. L’invito alla Esposizione Internazionale di Roma del 1911 attesta che il giovane pittore era stato notato non solo dal grande pubblico, ma anche dai maestri contemporanei. In questo stesso anno il Ciletti parte per New York, dove ha modo di conoscere la nascente arte moderna Americana. Tornato a Napoli nei primi giorni del 1915, si inserisce felicemente nel contesto della prestigiosa cultura napoletana: numerosissime si succedono le esposizioni personali e collettive; fa parte della cerchia di Salvatore Di Giacomo, godendo dell’amicizia e della stima del poeta – a cui lo accomuna anche la passione per la fotografia – come attestano sia la documentazione epistolare, sia la scelta del giovane pittore per illustrare alcune opere del Di Giacomo; frequenta assiduamente artisti, caffè e ritrovi alla moda ed il suo nome si ritrova spesso nelle cronache dei giornali contemporanei. Nel 1916 il Ciletti compare tra i pittori e gli scultori napoletani a cui Boccioni indirizza il Manifesto dei Pittori Meridionali. Nel 1917 una tela, fra quelle del Ciletti alla XXXVIII Promotrice Salvator Rosa, e’ acquistata dal Re Vittorio Emanuele III prima ancora che l’esposizione sia aperta, e nello stesso anno il pittore si trasferisce in quello che era stato lo studio di Domenico Morelli. Nel 1919, in occasione della mostra alla Floridiana, un’altra opera viene acquistata da Re Vittorio Emanuele III ed attualmente arricchisce la collezione della Quadreria del Quirinale. Nelle vicissitudini del primo dopoguerra il nome di Ciletti si trova associato a quello di numerosi artisti (Balestrieri, Curcio, Fabbricatore, Guardascione, La Bella, Panzini, Viti) che hanno deciso di organizzarsi autonomamente in un’associazione per poter avere sede stabile e possibilità espositive. Alla sua arte si interessano molti critici, tra cui M. Biancale, S. Di Giacomo, R. Foster, M. Luxoro, C. Nazzaro, A. Ott. Quintavalle, E. Scarfoglio, E. Zorzi, ecc. Nel 1922 l’artista partecipa su invito di Sem Benelli alla grande Esposizione Nazionale de La Fiorentina Primaverile, tenuta a Firenze al Palazzo delle Esposizioni in Parco San Gallo. Nel 1924 Nicola Ciletti sposa Fryda Laureti, scrittrice, poetessa e pittrice, e nel 1926 partecipa alla Biennale di Venezia – XV Esposizione Internazionale d’Arte, riportando un notevole successo. Negli stessi anni illustra le poesie di Edoardo Nicolardi, edite del 1928. Dal 1929 il Ciletti si trova in un’estrema difficoltà per il violento emergere del Circumvisionismo marinettiano e dell’U.D.A. L’artista riesce ancora ad esporre le sue tele, ma pochi giorni dopo l’inaugurazione di una sua personale (marzo 1932) nelle sale della Permanente del Circolo Artistico nella Villa Comunale di Napoli, le reiterate minacce di un gruppo di facinorosi lo inducono ad abbandonare la città partenopea. Ritiratosi a Benevento nel 1932, tiene fino al 1943 corsi liberi triennali di Disegno e Pittura che gli sono affidati dal Consiglio Provinciale dell’Economia Corporativa. Negli stessi anni è presente con due grandi personali alla XV Fiera di Milano nel 1934 e a Legnano nel 1935. Nel 1942 e nel 1946 espone a Benevento. Ciletti diviene sindaco del suo paese natale prima nel 1943 e poi dal 1946 al 1951. L’artista espone ancora a Benevento nel 1954 e poi a Roma, al Palazzo delle Esposizioni nel 1958, a Napoli alla galleria La Zagara nel 1960 e infine di nuovo a Roma, alla galleria San Marco nel 1965. Temperamento artistico indipendente e ribelle alle correnti di moda, il Ciletti fu osservatore acuto, interprete di una realtà espressa con una pennellata corposa, sintetica, di straordinaria luminosità. La tempra morale, costante compagna della sua vita di artista e di uomo, lo indirizzò verso un realismo trasfigurante che bene si coniuga con l’attenzione al mondo contadino, interpretato spesso in chiave di incomunicabilità, piuttosto che di verismo.

FRANCESCO STRAGAZZI

Il medico carbonaro (Fonti: Fabio Paolucci)
Il cognome Stragazzi appartiene ad un’unica famiglia italiana, oggi quasi estinta, che scelse come sua dimora il comune di San Giorgio La Molara, in provincia di Benevento. Il Casato discende da Angelo Ràkòczy, principe ungherese esule in Italia in conseguenza della congiura ordita dal padre Francesco I di Transilvania (1645 – 1676) con il conte palatino Wesselènyi contro gli Absburgo. Angelo si ritirò a San Giorgio La Molara e mutò cognome per sottrarsi all’ira e alla vendetta dell’Imperatore Carlo VI, che proprio in quel tempo era divenuto anche Re di Napoli dopo la guerra di successione polacca, in quello italianizzato Ragozzi, premettendo ad esso le due iniziali “S” e “T”, attribuendo a tali lettere il significato della denominazione di “Suprema Transilvania”. Il cognome risultò prima Stragozzi e successivamente Stragazzi, per un errore di trascrizione anagrafica o perché tale forma del cognome del Principe risultava meno dura all’orecchio di quella di Stragozzi. Angelo Ràkòczy, poi Stragozzi, ebbe una illustre discendenza. Vanno ricordati: Tommaso Pietro Stragazzi, Governatore di Salerno nel XVIII sec, Francesco IV, membro del Governo della Repubblica Partenopea, Deputato con Gioacchino Murat, decorato della Legion d’onore e Ferdinando (1847 – 1929), medico filantropo e uomo politico. A S. Giorgio la Molara nacque nel 1760 Francesco Stragazy. Esercitò la professione di medico e non sfuggì alla sorveglianza della polizia per i suoi “sentimenti irreligiosi e rivoluzionari”. Durante l’occupazione francese di Benevento fu ascoltato consigliere del governatore del principe di Talleyrand, Louis de Beer, e suo fervido fautore anche quando la città e il suo territorio furono occupati da Gioacchino Murat. Nel 1817, quando fu fondata a Benevento la Tribù carbonara “La Stella del Sannio”, fu suo “autorevole e autoritario esponente” e fu tra i capi rivoltosi nell’insurrezione del 5 luglio 1820. Chiamato a far parte del Governo provvisorio presieduto da Bartolomeo Rossi, ebbe la carica di Direttore della pubblica istruzione. Sottoscrisse con altri settecento beneventani il documento con il quale era richiesta al Parlamento Napoletano l’unione del Ducato di Benevento al Regno delle Due Sicilie. Caduto il regime carbonaro, Francesco Stragazy fu espulso dalla citta pontificia nell’aprile del 1821. Prese allora dimora nel suo paese nativo, ma non trascurò i contatti politici, sicché fu arrestato ad Avellino nel dicembre dello stesso anno. Richiesto dal governatore di Roma e direttore generale della polizia, cardinal Bernetti, fu inviato nello Stato Romano. Ritornò dall’esilio qualche anno dopo a San Giorgio la Molara per morirvi in circostante misteriose.

ORAZIO BARBATO

Nacque a S. Giorgio la Molara nella seconda metà del sec. XVI. Fu “Abate infulato” della sua Chiesa, cioè avente dignità quasi vescovile, e dotto esperto in diritto. Scrisse in materia civile sulla “divisio fructuum”, sul “fidecommisso”, sulla “subrogatio” del figlio di famiglia. Un suo trattato “De restitutorio interdicto” edito nel 1624 e lodato dai contemporanei, suscitò a torto le acerbe critiche di un suo avversario, dando così occasione al nipote Alberto Aderisio del “Novissimus tractatus de assistentia ad germanun” in difesa dello zio.

CARLO IAZEOLLA

(San Giorgio la Molara, 1747-1818)
Tratto da: Ermanno Iazeolla, La famiglia Iazeolla nel sogno della repubblica partenopea

carloiazeolla

9 April 2020

Carlo Iazeolla, Marchese di Montefalcone, fu un facoltoso banchiere e affarista a Napoli, dove partecipò attivamente alla Repubblica Partenopea del 1799 come membro dell’Amministrazione Municipale. Condannato a morte nella restaurazione borbonica, sfuggì all’esecuzione e morì in circostanze misteriose a San Giorgio la Molara nel 1818. Carlo nacque il 4 aprile 1747 nella grande “casa palazziata” o castello che era divenuta dal 1684 dimora della famiglia, originaria di Colle Sannita. La casata era stata insignita dell’arma nel 1647 dal Viceré di Napoli Don Rodriguez Ponz de Leon Duca d’Arcos. Nel 1772, a soli ventiquattro anni, ottenne con decreto Reale di far parte di quella ristrettissima cerchia dei monopolisti dello Jus prohibendi delle carte da gioco del Regno di Napoli. Così figura negli elenchi accanto al Principe Capece Minutolo, al Duca di Sangro, al Marchese Caracciolo e ad alti magistrati e borghesi di condizione. La sua partecipazione economica al monopolio delle carte da gioco durò per trentaquattro anni fino al 1806 (anno dell’abolizione di questo privilegio) durante i quali egli fu attivo a Napoli come banchiere, come lo definiscono il Meomartini “uno dei primi banchieri in Napoli” ed il Rotili “banchiere ed economista illuminato”. Dal 1794 gli venne affidato il feudo di Montefalcone, che tenne fino al 1812. Il prolungato periodo di dominio gli conferì il diritto al titolo di Marchese. Nello stesso anno cominciarono a serpeggiare a Napoli spiriti rivoluzionari, echi della recente Rivoluzione Francese, tesi a destituire la monarchia borbonica. Nel dicembre del 1798 Re Ferdinando fu costretto a fuggire e la città cadde in preda all’anarchia. Il 23 gennaio 1799 venne proclamata la Repubblica Napoletana e il 25 gennaio venne eletta l’Amministrazione Municipale di Napoli composta da venti elementi, fra i quali era Carlo Iazeolla. Tuttavia, erano trascorsi solo cinque mesi dalla proclamazione della Repubblica quando le truppe messe in moto dal Cardinale Fabrizio Ruffo per restituire Napoli ai Borboni giunsero nella capitale e, dopo aspri scontri, ebbero la meglio sui rivoluzionari. A Napoli il monarca volle mandare a morte tutto i rivoluzionari tra i quali era anche il Principe Francesco Caracciolo che fu il primo a soccombere il 20 giugno. Anche Carlo venne condannato a morte, come risulta sulla lapide posta a ricordo dei martiri della rivoluzione su Palazzo San Giacomo a Napoli. Tuttavia riuscì fortunosamente a sfuggire al patibolo, sacrificando parte del suo vistoso patrimonio. Ma quando il vento della vittoria di Napoleone ad Austerlilz giunse a Napoli, spazzò via anche i Borboni e l’avvento dei francesi provocò disordini, insurrezioni e brigantaggio alimentati dai borboniani al grido di “morte ai giacobini!”. Questa situazione presagiva la caccia a coloro che erano stati implicati nella Repubblica Napoletana del 1799 per cui la vita di Carlo Iazeolla era in serio pericolo. Si rifugiò allora di frequente a San Giorgio, dove il castello offriva discrete garanzie di sicurezza, ma anche da lì dovette far fronte a diverse incursioni brigantesche. Per recuperare il proprio patrimonio economico, anche a seguito dell’abolizione degli arrendamenti, Carlo si dedicò infine alla gestione delle ricevitorie del Regno. Iniziando dalle circondariali, ottenne poi l’affidamento delle grandi ricevitorie di Ariano e Montefusco ed infine anche l’affidamento della Ricevitoria Generale di Avellino, capoluogo del Principato Ultra. Tuttavia il ritorno dei Borboni segnò inesorabilmente l’inizio di una stagione di vendette perpetrate contro i giacobini legati al passato. Lo stesso ministro di polizia Capece Minutolo armò, col beneplacito della corte, la famigerata setta dei Calderari perché sterminasse i responsabili di qualsiasi movimento, compresi i Carbonari. Il 21 luglio 1818 lo “…atterrarono nella campagna di S. Jorio”, come riportato nella memoria del figlio Pasquale con parole che suggeriscono una morte violenta, per mano di un sicario. Fu dunque questa la tragica fine di uno degli ultimi esponenti della Rivoluzione del 1799.

ONOFRIO FRAGNITO

Tratto da: Maurizio Iazeolla, Onofrio Fragnito, uno dei padri della Neuropsichiatria italiana.
Nato a S. Giorgio La Molara e compiuti gli studi classici a Benevento, venne a Napoli dove si iscrisse alla facoltà di Medicina; da studente fu interno allo Istituto di Istologia e Fisiologia Generale, dove, sotto la guida di Giovanni Paladino, iniziò le prime ricerche sulla embriologia del sistema nervoso. La sua tesi di laurea sulla « polarizzazione dinamica degli elementi nervosi » destò l’ammirazione dei Commissari, fra i quali erano maestri che rispondevano ai nomi di Giovanni Antonelli, di Antonio Cardarelli, di Leonardo Bianchi. Quest’ultimo, che già aveva avuto occasione di conoscere e di apprezzare il giovane conterraneo, volle averlo nella sua Clinica neurologica e lo nominò assistente e poi aiuto. Vi rimase 10 anni, durante i quali lavorò con tutto l’impegno e l’entusiasmo su argomenti vari di istologia, di anatomia normale e patologica, di clinica, di semeiotica. Alcuni di questi lavori quale le ricerche sulla genesi degli elementi nervosi e nevrosici, sulla dottrina delle localizzazioni cerebrali, sulle funzioni dei lobi frontali, sulle afasie etc. ebbero risonanza notevolissima nel mondo scientifico e vengono ancora oggi citati come contributi originali e di grande interesse. Nel 1907 vinse il concorso per la direzione dell’Ospedale Psichiatrico di Aversa e, l’anno successivo, a soli 37 anni, raggiunse la cattedra di Clinica delle malattie nervose e mentali dell’Università di Sassari, dove, pur continuando per qualche tempo a tenere la direzione di Aversa, rimase tre anni, durante i quali continuò a lavorare intensamente, dando alle stampe altre molte pubblicazioni di notevolissimo valore. Nel 1911 venne chiamato alla Clinica di Siena. Qui, dove stette molti anni, ebbe modo di affermare ancora la sua personalità, con la sua infaticabile attività di studioso e insieme di organizzatore. Vi ebbe la carica, per 2 bienni, di Rettore Magnifico. Era il tempo della riforma Gentile: la sorte delle Università minori era sospesa e compromessa. Dovette affrontare situazioni difficili e delicate e le affrontò con fermezza e con il coraggio che gli venivano dalla conoscenza profonda dei problemi e dalla coscienza di difendere una causa giusta. Quando, nel 1924, per esigenze di carriera (era stato chiamato all’Università di Catania), venne via da Siena, lasciò un gran vuoto nell’ambiente accademico ed in tutta la città, che, a parte la stima per l’uomo di scienza e per l’autorità accademica, aveva preso ad, amarlo come, un suo figlio prediletto; amore ed attaccamento che egli ricambiava con animo riconoscente; sì che grande fu per lui il dolore del distacco. Sempre, fin negli ultimi giorni di vita, parlava della sua Siena con tono commosso e di nostalgico attaccamento. A Siena, diceva, ho lasciato un pezzo del mio cuore. Anche a Catania, dove rimase solo tre anni, incontrò subito la stima dei Colleghi e del Corpo accademico; per i noti precedenti senesi lo vollero Rettore; ed anche qui tenne l’alta carica con pari decoro ed eguale prestigio. Rientrò finalmente a Napoli nel 1927, chiamatovi con unanimità di voti dalla nostra facoltà medica. Era questa la sua massima aspirazione; chiudere il ciclo della sua brillante carriera là dove l’aveva iniziata da studente e da assistente; insegnare da quella cattedra che era stata la palestra luminosa del suo grande maestro: Leonardo Bianchi. Era stato il suo allievo migliore, era il più degno a succedergli. E qui ha dimostrato, in quindici anni di insegnamento, di essere veramente all’altezza dell’impegno. Più avanti negli anni e nella carriera, pubblicò, oltre numerosi altri contributi di clinica e anatomia patologica, un volume di semeiotica neurologica, che faceva parte del Trattato di Chirurgia del Taddei. In esso sono racchiusi tesori di sapere e di, insegnamenti. Quando già si era ritirato dalla vita universitaria attiva, ha voluto ampliarlo, completarlo, arricchirlo e, con la collaborazione del suo allievo Gozzano, vi ha apportato le nuove acquisizioni e le tecniche più moderne di esplorazione del sistema nervoso. Ne venne fuori una opera organica, a sé stante, che ogni medico dovrebbe tenere e consultare ogni volta che gli si affaccia un problema, un quesito di neurologia. Altra opera di grande rilievo è il volume sulla Patologia degli emisferi cerebrali, che fa parte del Trattato di Medicina interna del Ceconi, Qui, come del resto in ogni scritto del Fragnito, oltre il denso contenuto, per cui ogni capitolo rappresenta una completa monografia, si segnala la chiarezza dell’esposizione e la non comune capacità di sintesi. Anche degli ultimi anni è la raccolta delle perizie Neuropsichiatriche, che già tanto successo riscosse in una prima edizione, sia nell’ambiente dei medici, come in quello degli avvocati e dei magistrati, e che poi, qualche tempo dopo, è uscita in una seconda edizione, cui ha aggiunto altri saggi e casi clinici e medico-legali di notevole interesse. Né si può dimenticare l’ultimo suo piccolo libro intitolato «Memorie di un ottuagenario»; piccolo libro che ha voluto stampare in soli cento esemplari, offerti ai suoi allievi, ai suoi amici più intimi. Sono cenni biografici, ricordi d’infanzia, primi passi nell’ambiente universitario, vicende della sua carriera accademica; finisce, senza pretese, per racchiudere la storia di quasi 50 anni della vita universitaria italiana. Ed anche in questo, come del resto in tutti i suoi scritti, oltre al contenuto di vivo interesse, si ammira lo spirito arguto, che talvolta è anche pungente, ma sempre corretto e signorile, ed infine una forma, uno stile, un italiano purissimo. Nelle ultime pagine di questo libro è espresso il compiacimento e la soddisfazione del Maestro per aver visto alcuni dei suoi allievi alla Cattedra Universitaria o alla direzione di importanti Istituti psichiatrici. Grande fu soprattutto la sua gioia quando il Gozzano venne chiamato alla Cattedra di Roma. Ma vi affiora l’amarezza di non aver avuto il tempo e la possibilità, lasciato l’insegnamento per limiti di età, di aiutare oltre e vedere a posto qualche altro discepolo più giovane; e poi il profondo dolore per la morte impreveduta di uno dei più valorosi fra questi, Salvatore Tolone, Ed è infine espressa, pur senza acredine, la profonda amarezza perché qui a Napoli, nella sua Università, che tanto egli aveva amata e onorata, non si volle esaudire il suo più vivo desiderio e la legittima sua aspirazione che a succedergli fosse chiamato il primo, degnissimo, suo allievo, Serafino D’Antona. «Non chiamando D’Antona a succedermi, egli scrive con accorato distacco, la Facoltà fece un torto a lui ed a me». Riuniva in sé, Onofrio Fragnito, come pochi eletti, le virtù dello scienziato, del clinico, del Maestro. Maestro, soprattutto, nel più alto e nobile significato. Sapeva trasferire nei suoi allievi, senza dettar leggi e senza mai voler imporre il suo pensiero e la sua metodica, l’amore per la disciplina che insegnava; era un suscitatore di energie, moderatore opportuno, guida sicura.

TOMMASO BUCCIANO

Scultore – (San Giorgio la Molara 3 gennaio 1747 – 3 ottobre 1830)
Fu allievo a Napoli prima dello scultore in legno Gaspare Castelli e poi cominciò a lavorare dagli anni 1773-1775 nella Real Fabbrica Ferdinandea della Porcellana con Francesco Celebrano. Dal 1785 al 1788 fu impegnato nella realizzazione di importanti opere in stucco nella Reggia di Caserta. Lo scultore modellò nella Sala delle Guardie del Corpo un putto reggibandiera e due pannelli rappresentanti: l’Aiuto che Fabio Massimo portò a Minucio e la Morte del console Marcello. Sono tutti di sua mano gli otto busti femminili della Sala degli Alabardieri. Dal 1789 fu a Roma con una borsa di studio regia. Dopo una malattia agli occhi è attestato di nuovo al lavoro nella Real Fabbrica della Porcellana dal 1801 al 1806. In seguito tra il 1810 e il 1813 collaborò anche con la Manifattura Poulard Prad che nel decennio francese prese il posto della precedente fabbrica reale. Allo stato attuale degli studi è nota una sola opera dello scultore realizzata al di fuori della manifattura napoletana, si tratta del busto di S.Domenico nella chiesa di S.Rocco a San Marco dei Cavoti.
(Tiziana Iazeolla)

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